Heads Together

#HeadsTogether #OKToSay

Il lutto inelaborato può colpire ognuno di noi e ci impedisce di stare bene e evolverci.

Il Principe William e la Principessa Kate, sua moglie, hanno lanciato nel loro paese, una campagna socio-culturale, per dare voce a coloro che soffrono di problemi di salute mentale.

L’iniziativa si chiama “Heads Together” con hashtag #OKToSay, si concentra sull’importanza di parlare con chiarezza dell’argomento, e con l’intento di incoraggiare il dibattito sul benessere emotivo.

Molte sono le iniziative organizzate, come la maratona di Londra,  all’interno di questa campagna, il principe Harry,  ha concesso un’intervista in cui ha parlato delle sue difficoltà emotive, riguardo le tematiche della salute mentale.

Le sue parole sono state semplici e dirette riguardo il modo in cui ha affrontato i momenti immediatamente successivi alla morte di sua madre, la principessa Diana.

Alcune delle sue parole sono state estremamente chiare, nonostante l’argomento fosse così intimo e doloroso.

Come per ogni bambino che perde sua madre, il piccolo principe Harry, all’età di 12 anni vide la sua vita drammaticamente segnata dalla tragica scomparsa di Lady D.

Avevo semplicemente zittito le mie emozioni, e continuato a dire a chi mi domandava come stavo, che tutto andava bene, perché è più semplice che spiegare i dettagli e impedisce di andare in profondità.

… Posso dire con sicurezza che perdere la mia mamma a 12 anni, e di conseguenza blindare le mie emozioni per gli ultimi vent’anni ha avuto un effetto rilevante non solo sulla mia vita personale ma anche sul mio lavoro.

… Ho cercato una consulenza psicologica dopo 20 anni della mia vita, passati a non pensare alla morte di mia madre, e due anni di caos totale nella mia vita.

… Probabilmente sono stato molto vicino a un crollo nervoso in più occasioni, quando ogni genere di dolore, bugia, travisamento e tutto mi si sono riversati addosso da ogni parte.

… Il mio modo di affrontarlo allora fu di mettere la testa sotto la sabbia, e rifiutare persino di pensare alla mia mamma, perché a cosa serviva? 

Pensavo che mi avrebbe solo reso più triste, non me l’avrebbe restituita.

Quindi da un punto di vista emotivo mi dicevo: “bene, non permettere alle tue emozioni di avere un ruolo in niente.

Ero un tipico venti-venticinque-ventottenne che andava in giro dicendo “la vita è stupenda” o “va tutto bene” ed era così.

… E poi ho iniziato a parlarne con qualcuno e tutt’a un tratto, tutto questo lutto che non avevo mai elaborato ha cominciato a venirmi incontro e ho capito che c’era in effetti un sacco di cose con cui dovevo fare i conti.

… Un percorso terapeutico che va avanti da oltre due anni e mezzo e che, oggi, sta dando finalmente i suoi frutti con una ritrovata serenità:

“Ora sono in grado di prendere sul serio il mio lavoro, e di fare lo stesso con la mia vita privata e di versare sangue, sudore e lacrime nelle cose che fanno davvero la differenza e in quelle che penso possano fare la differenza per gli altri”.

Da questi stralci dell’intervista possiamo ben comprendere, come il dolore del lutto possa colpire in maniera subdola e invalidante l’equilibrio emotivo nella vita, di ognuno di noi.

Queste parole così sentite e ora coscienti, rivelano la tragicità, l’enormità della perdita che ha segnato il bambino Harry, e interrotto la vita dell’uomo adulto.

Egli è ora cosciente che per oltre vent’anni è stato costretto a negarsi tutte le emozioni che la vita gli offriva, per difendersi dal dolore inelaborabile della sua perdita.

Si può comprendere da questo racconto, come sia complesso e individuale il nostro modo di gestire traumi così tragici.

Possiamo immaginare che il giovane principe Harry, possa aver avuto molte possibilità e la totale disponibilità di tutta la sua famiglia, se non la comprensione del mondo intero, riguardo il dolore che la vita lo ha costretto ad affrontare, ma oggi lui stesso ci fa capire quanto la decisione di chiedere aiuto dipenda dalla persona stessa, e da lei soltanto.

Il principe infatti ringrazia in questa intervista suo fratello William per averlo più volte incitato a chiedere aiuto, ma la decisione è del tutto personale e dipende anche dalla vita stessa.

Questa importante campagna di sensibilizzazione verso la sofferenza psicologica ha un alto valore sociale, che speriamo possa trovare anche nel nostro paese, e nell’Europa tutta, altri interlocutori nazionali, al fine di superare lo stigma della malattia mentale, riuscire a parlare di sé e delle proprie sofferenze con specialisti della salute mentale, può ridare la gioia di vivere.

Fonte: The telegraph

Dipendenza da videogiochi - Dott.ssa Lucia Caimmi

Pokemon Go causa incidente mortale

Da un articolo su Repubblica del 1 Novembre troviamo la segnalazione, che in Giappone c’è stato il primo caso finito in tribunale, per un incidente mortale causato da un signore 39enne che giocava a Pokémon Go mentre guidava.

Questo signore che leggiamo essere un agricoltore, ha investito e ucciso una donna di 72 anni e ferito gravemente un’altra mentre attraversavano la strada nella città di Tokushima.

Dopo aver subìto un processo, è stato condannato a 14 mesi di prigione, mentre l’accusa aveva chiesto 20 mesi di reclusione.

Il giudice ha valutato che il comportamento del conducente è stato di “grave negligenza” e che per la sua distrazione non ha potuto evitare la disgrazia.

Leggiamo che dal 22 luglio in Giappone, data del lancio del popolare gioco si sono verificati altri due incidenti mortali, uno dei quali ha coinvolto un bambino di 9 anni.

Quello che più sorprende in questa notizia così disgraziata è che la responsabilità sembra essere attribuita al gioco!

La condanna ci sembra lieve per quello che nel nostro paese è ora assimilabile all’omicidio stradale, ma quello che più sorprende è che l’interpretazione del giudice attribuisce al gioco la parte maggiore di responsabilità per l’uccisione di una persona e il ferimento di un’altra.

La grave negligenza del conducente sta soltanto nell’esserci fatto distrarre completamente dal gioco.

È stato il gioco, che ha assorbito tutta l’attenzione del signore, che al volante della sua auto ha investito le persone che si trovavano sulla sua strada.

Quello che ci sconcerta non è il valore irrisorio, che sembra essere attribuito alla vita di queste persone, perché non deve essere intrinsecamente legato agli anni di galera, ma di sicuro la parola negligenza non sembra commisurata all’enormità del risultato del comportamento che genera l’uccisione di una persona.

Mi sembra che ci troviamo difronte a una infantilizzazione del soggetto e quindi ad una sua deresponsabilizzazione.

Così il valore di persona adulta capace di discernere la gravità e le conseguenze delle proprie azioni viene disconosciuto, ignorato.

Il soggetto può quindi lasciarsi completamente soggiogare dall’attività ludica, entrare nel mondo virtuale parallelo, disconnettersi dalla realtà, finendo per rincontrarla in un modo atroce, (e soltanto perché è la realtà stessa a incrociare la sua strada), senza che queste azioni intenzionali siano valutate come estremamente gravi.

Attribuendo questo disconnettersi dalla realtà al gioco e non al giocatore si sottrae il valore della volontà del soggetto e quindi la sua responsabilità, lo si identifica con un bambino, e in quanto tale non totalmente responsabile delle sue azioni.

Psico-oncologia Ancona - Dott.ssa Lucia Caimmi Psicologo Ancona

Il morire: natura o malattia? Psicoanalisi in oncologia

Relazione a Congresso Nazionale Sipo:
"Professionalità ed innovazioni in Psico-oncologia" 
1-3 Ottobre 2009 a Senigallia (An)
Workshop

Abbiamo costituito questo congresso nazionale intorno ai temi della professionalità e delle innovazioni in Psico oncologia; l’obiettivo di questo workshop è quello di creare un contesto di riflessione, partecipazione e scambio emotivo su quella specifica evenienza della vita che è la morte in oncologia.

Per definire il contesto farò riferimento ad alcuni autori, usando i loro pensieri e le loro impostazioni teoriche come stimoli per inquadrare, individuare ed aggiornare le nostre riflessioni e i nostri pensieri preconsci riguardo a quella percentuale della malattia oncologica che porta al morire.

Per innovare, cioè per aggiornare i nostri strumenti cognitivi ed emotivi, dobbiamo come sempre, prendere lo spunto dai contenuti teorici passati, analizzare la nostra contemporaneità ed evocare quello che in noi e nei nostri pazienti sembra essersi modificato, riflettere sulle dinamiche che sembrano essere immutate, e domandarci infine, quale può essere il motivo per cui quel qualcosa si è trasformato.

La riflessione che ha dato origine al titolo di questo workshop è stata questa: la malattia oncologica meglio di ogni altra patologia mi permette di intravvedere l’evolversi dell’odierno rapporto con la morte, perché mi sembra ipotizzabile che è il rapporto con la vita che si sta modificando.

Nel tempo presente viviamo e condividiamo una società, quella occidentale, che tende a globalizzare l’approccio alla vita, definisce in maniera sempre più omologante il modo migliore in cui sembra necessario e adeguato vivere per raggiungere e mantenere il benessere.

La riflessione sul significato e sul vissuto della morte sembra scotomizzata, sembra esserci un rifiuto a percepire quegli aspetti spiacevoli o dolorosi di cui la vita è intrisa, e che sono frammisti a quelli piacevoli e soddisfacenti.

Nell’attualità la morte viene evocata di continuo, è l’evento che genera sopra ogni altro il massimo clamore, la maggiore risonanza; la morte è un evento che va sempre più spesso in diretta.

Questo sembra un tentativo alquanto maldestro e grossolano di “usare” la morte, che viene adoperata come una chiave per attirare l’attenzione di tutti in modo sicuro ed intenso, ma morire è l’evento naturale più assodato che si verifica dopo la nascita ed è quello che può generare il massimo livello di dolore.

Mi sembra necessario ribadire il presupposto, che la persona che si ammala di cancro, entra in contatto con noi, con in più quell’esperienza del presente, ma noi abbiamo davanti tutta la sua storia, la sua struttura di personalità, le sue modalità di adattamento, i suoi meccanismi difensivi, il suo stile nelle relazioni oggettuali.

Introduco alcuni frammenti selezionati di vari autori, che con differenti aspetti teorici, possono esserci d’aiuto nel concettualizzare le differenze di personalità delle persone, e il modo in cui sulla base di queste loro peculiarità saranno in grado e come di valutare, accettare, rispondere allo stress fisico, cognitivo affettivo e relazionale, che la patologia oncologica in fase terminale impone.

Freud, S. (1912) Totem e tabù

Chi ha violato un tabù diventa tabù a sua volta
(1914) Introduzione al narcisismo

In questo scritto Freud inserì il termine “Ideale dell’Io” e precisò che i moti pulsionali sono soggetti alla rimozione se vengono in conflitto con le concezioni etiche e culturali dell’individuo.

L’individuo accetta questi ideali come un modello di riferimento per sè stesso e si sottomette alle loro pretese.

Sandler, J. (1963)

Il Sé ideale, è una rappresentazione del Sé, ..è la forma desiderata del Sé in un dato momento, il Sé che io voglio essere… il Sé ideale è, in ogni momento, una formazione di compromesso fra la condizione desiderata di gratificazione pulsionale e il bisogno di ottenere l’amore o di evitare la punizione da parte delle figure autoritarie, interne o esterne. … E’ basato sui principi morali acquisiti da altri significativi, specialmente dalla famiglia.

Rotter, J. (1954) Locus of control = (Luogo del controllo)

Il luogo di controllo, è un costrutto teorico basato su un continuum, che si riferisce a quello spazio psicologico per cui gli individui credono di poter controllare gli eventi che li interessano.

Gli individui con un alto valore interno di Locus of Control credono che gli eventi derivino soprattutto dai loro comportamenti ed azioni; hanno migliore controllo del loro comportamento, sono più attive.

Quelli con un alto valore esterno di Locus of Control credono che il destino, o il caso determinino gli eventi, non sono propensi a credere che i loro sforzi produrranno un buon risultato, cioè non credono che lavorando molto riusciranno a raggiungere i loro obiettivi, perché il risultato dipende da fattori esterni.

Seligman, M. (1975) Learned helplessness = (Impotenza acquisita)

Una condizione mentale in cui la persona ritiene di non avere controllo sui propri fallimenti e che essi siano inevitabili.

L’essere Learned helplessness si presenta spesso in bambini che sono cresciuti in ambienti sociali duri in cui il successo è difficile da raggiungere, hanno fallimenti scolastici ripetuti, rispondono meno intensamente al coinvolgimento scolastico, e usano le loro stesse difficoltà come uno scudo per giustificare i loro fallimenti.

Velting, D. (1998)

Ha studiato il rapporto fra mancanza di speranza e le variabili di personalità trovando connessioni dirette tra la mancanza di speranza e la struttura nevrotica, e al contrario connessioni inverse tra la mancanza di speranza e i tratti di Estroversione e Coscienziosità, come pure atteggiamenti di Apertura all’esperienza e di ricerca di Accordo.

Altre analisi rilevano correlazioni positive dirette tra la mancanza di speranza la Vulnerabilità e la Depressione, e inverse nell’Impulsività.

Bennett K.K.,& Elliott, M. (2005)

Le persone con uno Explanatory style = Stile esplicativo (cioè il modo in cui le persone si spiegano il perché di un particolare accadimento negativo o positivo) pessimistico tendono ad indebolire il loro sistema immunitario, ad avere un recupero meno efficace dai problemi sanitari, ad aumentare la vulnerabilità ai disturbi secondari (per esempio freddo, febbre) ed alle malattia importanti (es: attacco di cuore, cancro).

Giese-Davis, J, Spiegel, D. (2003) Human shock absorber = Persone che assorbono i traumi.

Coloro che sviluppano un cancro sono più abituati a reprimere le proprie emozioni, specialmente quelle negative come la rabbia, possono essere definiti: Human shock absorber.

Mantenere un atteggiamento positivo nei confronti della malattia impedisce, a queste persone, di sfogare tutta la rabbia accumulata; il cancro evoca necessariamente forti emozioni in relazione a questioni esistenziali, danni corporei, effetti collaterali dei trattamenti, perdita di abilità, fatica.

La Repressione dei sentimenti, sembra essere correlata con l’incidenza e il ritorno del cancro; sentimenti depressivi alla diagnosi sono naturali, ma la loro negazione è un fattore di rischio associato con una sopravvivenza più breve.

Se una persona ha come stile di regolazione degli affetti la Soppressione, la Negazione, questa sua modalità è al di fuori della sua coscienza, quindi non riporta nei colloqui questi sentimenti che non percepisce; ma senza comprensione ed espressione degli affetti negativi, questi possono innalzarsi sino ad un esplosione emotiva.

Questi affetti negativi, in quanto precedentemente nascosti e negati, quando salgono alla coscienza risultano molto distruttivi, alieni, e minano ancora di più l’auto percezione della capacità di coping; molti pazienti non ne parlano o minimizzano, perché sono terrorizzati da quella che sentono, (come un ulteriore incapacità di contrastare il male), cioè si sentono indifesi dal punto di vista fisico, perché si sono ammalati e dal punto di vista psicologico perché si sentono impotenti e vinti.

Per scendere nell’attualità riporto un articolo apparso sul Corriere della Sera dell’11 Agosto scorso: “Cibo, eros e violenza La dittatura dei desideri Senza limiti: così gli eccessi sono diventati di massa” di Remo Bodei filosofo, dove veniva disegnata in una interpretazione storico-filosofica l’evoluzione sociale ed individuale dei concetti di misura, di limite, di consumo, sino al raggiungimento della consapevolezza che l’eccesso allontana dalla gratificazione.

Questa è una visione del presente, ma quando io ero bambina ci veniva insegnato che: “La tua libertà finisce dove comincia quella dell’altro“.

Il quotidiano non è più vissuto come una costante occasione di bilanciamento tra piacere e dispiacere, tra bene e male.

Alzarsi la mattina, non porta a quella ricerca dell’equilibrio omeostatico tra i propri desideri e l’accettazione altrui, quanto al tentativo di rimuovere tutti gli ostacoli che ci separano da una gratificazione totale e da una assenza del dispiacere, cioè avere tutto e prima possibile, chi ci riesce prima e meglio non è più una persona infantile ed esaltata, ma un vincente. (winner vs looser)

Freud chiamava questo processo il tentativo di ripristinare il narcisismo primario, cioè quel modo di vivere la realtà, che è sano per il bambino, ma distruttivo per l’adulto.

Un bambino sano che vuol essere al centro di un mondo del quale non percepisce i limiti e del quale invece riesce a distinguere solo il sentimento di piacere e quello di dispiacere, quindi gode quando è sazio, è disperato e fa di tutto per abbreviare o evitare il momento inevitabile del dispiacere; questa è l’occupazione giusta del lattante, che non deve pensare ad altro che a crescere sano e contento, perché c’è chi lo protegge e lo ama.

Ma la situazione di narcisismo primario è disfunzionale in età adulta, la società per accoglierci e proteggerci ci impone restrizioni e deroghe al soddisfacimento, i baccanali, i carnevali, le feste, da sempre sono serviti come contenitore autorizzato delle pulsioni censurate, Freud in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1921) sottolineava: “…l’assenza di libertà del singolo all’interno della massa”.

Nel quotidiano sembra cambiato il rapporto di equilibrio tra piacere e dispiacere, analizzando alcuni comportamenti, che a livello sociale divengono sempre meno marginali, si può tentare di ipotizzare che nell’aumento di compulsività negli acquisti, nell’abuso di alcool e sostanze psicotrope, nei comportamenti a rischio di incolumità propria e altrui, nei comportamenti antisociali e delinquenziali, nelle reazioni impulsive ed aggressive e soprattutto nella mancanza di rimorso per le azioni commesse: si nascondano disturbi di personalità.

Anche in questi quadri clinici c’è una modificazione della capacità di percepire la realtà, se stessi e gli altri, qui troviamo la difficoltà nel controllo degli impulsi, e la variabilità estrema degli affetti.

Questa digressione, beninteso incompleta, ci serve da forte stimolo per iniziare a riflettere sulle differenze e le costanti che troviamo quando in questo momento sociale ci confrontiamo cognitivamente ed emotivamente con persone a cui la morte è “annunciata”.

Il tumore è un nemico interno che la persona non può pensare di contrastare da solo.

Quindi vorrei aprire il confronto su questi differenti modi di percepire ed elaborare il morire oncologico come evenienza naturale o come danno derivato da malattia.


Bibliografia:
° Bennett, K.K., & Elliott, M. (2005). Pessimistic explanatory style and Cardiac Health: What is the relation and the mechanism that links them? Basic and applied social psychology, 27, 239–248
° Bodei, R. (11 Agosto 2009) “Cibo, eros e violenza La dittatura dei desideri Senza limiti: così gli eccessi sono diventati di massa” su Corriere della Sera. Milano
° Giese-Davis, J, Spiegel, D. (2003) Emotional expression and cancer progression in Hand book of affective sciences. New York Oxford University press
° Sandler, J., Holder, A., Meers, D., L’ideale dell’io e il Sè ideale in La ricerca in Psicoanalisi Vol. 1 (1980) Torino Bollati Boringhieri
° Seligman, M.E.P.(1975) Helplessness: On Depression, Development, and Death. San Francisco: W.H. Freeman
° Velting, Drew M. (1999) Personality and negative expectancies: Trait structure of the
Beck Hopelessness Scale in Personality and Individual Differences, Volume 26, Issue 5,
1 May 1999, Pages 913-921